Prima di partire non avevo la più pallida idea di cosa fosse la “Ruta 40”, o Cuarenta, come la chiamano laggiù. Certo mi ero documentato, ma per capirlo davvero ho dovuto aspettare di trovarmi a vivere lo scorrere dei chilometri, interminabile, lungo quei rettilinei che prima di allora credevo esistessero solo nei cartoni animati di Willy Coyote, e l’ho compreso del tutto solo quando ho cercato di domare la mia Vespa in balia di un fondo stradale impossibile, maltrattato da un vento sempre presente e a tratti implacabile. La cosa buffa e sorprendente è che ho avuto la netta sensazione di non essere stato l’unico sprovveduto a imbarcarsi in questa avventura, e che un approccio simile ci sia stato anche da parte di diversi miei compagni di viaggio. Siamo partiti più o meno consapevoli di quella che per qualcuno era una sfida e per altri soltanto una vacanza originale e, a un certo punto, ci siamo accorti che non stavamo solo attraversando una nazione immensa e meravigliosa: stavamo viaggiando dentro noi stessi, muovendoci in un luogo magico, difficile da descrivere a parole.
Mi sono svegliato non appena la luce del sole ha cominciato a rischiarare l’interno della tenda: è la stessa identica luce che c’era al tramonto, qualche ora di buio nel cuore della notte per tornare a presentarsi tale e quale poco dopo nell’alba di questo nuovo giorno. Nonostante fossi ben imbacuccato nel sacco a pelo questa notte ho patito freddo. Prima di aprire la lampo della tenda resto per qualche minuto a crogiolarmi al calduccio, in ascolto, alla vana ricerca di qualche segno di vita da parte dei miei compagni di viaggio. Quando mi decido ad abbassare la lampo è un po’ come aprire un sipario: in primo piano le Vespa parcheggiate poco distanti. L’erba alta che cresce tutto attorno è pettinata dal vento, mossa in morbide onde che si succedono. Sullo sfondo, sterminata, la Patagonia. Una visione che è una sferzata di entusiasmo e mi rende impaziente di cominciare il prima possibile questa nuova giornata di viaggio.
Siamo come astronavi che viaggiano in un nulla che a volte sembra magico, ed esercita un’attrazione enorme verso chi vi si avvicina con spirito curioso e disponibile. La Patagonia è un territorio immenso e innegabilmente vuoto, ma il fatto che ci sia una strada significa che qualcuno ci è già passato prima di te. Così non ti senti più un pazzo, o un avventuriero, ma soltanto un uomo straordinariamente fortunato per essere arrivato fino a qui.
Montiamo le tende non molto distante dalle sponde del torrente Rio Pelque e allestiamo la nostra tendopoli attorno alla carcassa di un vecchio scuolabus che, una volta, doveva essere dipinto di colori vivaci. Era stato trasformato in una sorta di camper fatto in casa, ma adesso è in totale abbandono e, a giudicare dalle sue condizioni, è così da parecchio tempo. Ovvio fantasticare di qualche avventuroso vagabondaggio come il nostro, naufragato per chissà quale motivo in questo luogo desolato. Scontato forse, ma inevitabile, un pensiero per Chris MacCandless-Alex Supertramp, sfortunato giovane dallo spirito libero, che consumò nelle foreste dell’Alaska gli ultimi giorni della sua tormentata esistenza cercando di sopravvivere rifugiato nella carcassa di un vecchio autobus abbandonato. La sua storia è narrata nel libro di Jon Krakauer “Nelle terre estreme” e resa celebre dal film “Into the wild”.
Il ferry Pionero Valparaiso va ad arenarsi di prua proprio dove, poco prima, mi ero chinato per toccare le acque dell’Atlantico. Grazie alla spinta dei motori mantiene la posizione e fa calare la paratia anteriore come fosse un ponte levatoio. Scendono solo qualche camion e poche automobili e, subito dopo, ci viene fatto segno di salire: un grosso colpo di fortuna! Leggendo i racconti di altri viaggiatori sapevamo che a volte si attende l'imbarco per giorni quando il vento soffia implacabile e le acque dell’oceano sono agitate al punto da impedire l’attracco. Quando siamo a metà della traversata, il vento si fa più forte e l'acqua alzata dalle ondate finisce per bagnarci. Abbiamo la fortuna di assistere al fugace passaggio del dorso scuro di qualche piccolo cetaceo non meglio identificato, che incrocia la scia della nostra imbarcazione... salire con la mia Vespa su un traghetto per attraversare lo Stretto di Magellano alla volta della Tierra del Fuego: un qualcosa che mai avrei immaginato di fare in vita mia!
Siamo fermi in uno slargo a lato della strada. Nessuno parla, nessuno scende dalla Vespa. Fa molto freddo, il cielo è cupo e minaccioso anche se, a tratti, una serena luminosità riesce a filtrare fra le nubi. Non potrebbe esserci luce migliore per fissare per sempre nel nostro cuore l’istantanea di questo istante. Il ronzio del clacson di una Vespa viene a rompere l’immobilità di questo momento magico e inizia la festa! C’è chi sgasa imballando il motore, chi grida, chi applaude. Metto la Vespa sul cavalletto, mi levo il casco e... sbam! Pannokkia mi si butta addosso per abbracciarmi e mi colpisce con una potente testata, lui che il casco lo indossa ancora. Non riesco a prendermela, lo abbraccio a mia volta e, dopo il giovanotto torinese, abbraccio il lattoniere reggiano, poi è la volta dell’oriundo argentino, quindi del muratore trevigiano, il neo papà brasiliano, l’esuberante marchigiano, il poliziotto romano. Via via, uno dopo l’altro, stringo la mano e abbraccio tutti. La magia del nostro viaggio è stata anche questa, amalgamare persone che quasi non si conoscevano fino a portarle a sentirsi legate, nemmeno fossimo fratelli. La nostra determinazione è stata pari al nostro entusiasmo e il nostro ottimismo più forte della malasorte. Missione compiuta!
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